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Museo d’Arte Olearia

Rivive a San Secondo l’antica arte olearia nel Museo Agorà Orsi Coppini

In una zona da sempre vocata all’agroalimentare, il Podere Fieniletto e un casello ottocentesco per la produzione del Parmigiano Reggiano sono stati trasformati per accogliere un percorso dedicato all’olivo, albero sacro in tutte le civiltà, simbolo di pace e dialogo, fonte di sostentamento, sapore, cura del corpo e dello spirito, luce.

Antichi documenti d’archivio testimoniano che l’olivo era coltivato nel Parmense – dove ancor oggi permangono alcune piante superstiti – fin dal XII secolo. La famiglia Orsi Coppini, che porta nel cuore la passione per l’olio d’oliva, ha voluto dedicare a questo straordinario alimento un luogo specifico per poterlo meglio conoscere e apprezzare.

All’interno del Museo si articolano tre spazi:

  • Spazio Anita: dedicato alla storia dell’olio e ai sistemi di produzione più antichi di tipo meccanico. Al suo interno è possibile ammirare un torchio o “strettojo” a una vite del tipo “alla genovese” e una pressa a leva e a vite in legno.
  • Spazio Americodedicato agli strumenti di produzione idraulici. Quest’ala del Museo ospita un Frantoio a due macelli (pietre molari) con gramola-dosatore risalente agli anni ’50, un torchio o pressa idraulica, un torchio in ferro, un torchio o pressa idraulica a quattro colonne, una pompa idraulica e due separatori meccanici.
  • Angolo di lettura: uno spazio nel verde nel quale è possibile soffermarsi ad ammirare un Frantoio in pietra a due macelli (pietre molari).

Sala convegni

Inoltre all’interno della struttura una sala convegni con circa 100 posti a sedere, dotata delle migliori tecnologie audio-video e di ogni possibilità di registrazione, trasmissione, interattività online e videoconferenze, offre un servizio d’eccellenza e d’avanguardia per convegni, seminari, conferenze, corsi di cucina in un ambiente particolare di straordinaria bellezza, naturale ma allo stesso tempo dotato di ogni comfort, servizi e tecnologia.

L’Agorà tra gli ulivi

LAgorà è un teatro all’aperto in un parco naturale costellato di ulivi secolari, unico nel suo genere, in un comprensorio davvero vasto, attrezzato con le più moderne tecnologie e servizi, per concerti, spettacoli ed eventi anche di altissimo livello. Può ospitare fino a 500 persone a sedere su tre livelli di gradoni.

Storia

Il museo Agorà Orsi Coppini nasce grazie alla passione per l’olivo di Anita e Americo Coppini, oliandoli fondatori dal 1946, che continua a vivere oggi, dopo tre generazioni, nel cuore della famiglia Coppini.

Americo con la moglie Anita, figli della Food Valley e formati con la creatività e l’intraprendenza di chi deve inventarsi come guadagnare il pane con la terra e il lavoro delle proprie mani, da mastro casaro si misura con una nuova sfida: riportare l’extravergine nella provincia di Parma. Quella dell’oliandolo è stata per Americo una vocazione. Lo chiamavano “il missionario dell’olio” quando viaggiava con la sua bicicletta e degli assaggi di olio per fare conoscere il vero extravergine, insegnando la degustazione.

Americo e Anita avevano già capito, in netto anticipo sui tempi, l’importanza della cultura nell’enogastronomia; “la conoscenza prima di tutto” per poter apprezzare le caratteristiche di un prodotto. Da questo amore e da questi insegnamenti la famiglia Coppini ha deciso di creare il museo Agorà dedicandolo proprio ad Americo e Anita, oliandoli fondatori.

Intorno all’olivo

“Conoscere per amare”, così nasce l’idea della famiglia Coppini, le cui radici sono profondamente ramificate nel terreno della Food Valley. Ecco perché è nato qui il Centro culturale dell’olio e dell’olivo, per diffondere la conoscenza di un prodotto e di un mondo che è arte, Arte Olearia appunto, la cui aura illumina la storia, dalla mitologia più antica fino ai nostri giorni.

Il museo Agorà Orsi Coppini, Arca della Cultura, che comprende il Museo dell’Arte Olearia e l’Agorà tra gli ulivi, è stato voluto e creato dalla famiglia Coppini al fine di:

  • veicolare la cultura dell’olivo: i popoli del Mediterraneo hanno acquisito la civiltà anche grazie all’olio; l’Italia è un Paese fondato sull’olio: il simbolo stesso della Repubblica Italiana è un ramo d’ulivo e diverse religioni hanno basato sull’olivo e sull’olio la loro forza espressiva;
  • rappresentare un percorso emozionale in cui l’extravergine diventa logos, immagine, artigianato, cultura che si può assaporare, che traduce in esperienza diretta un sapere di generazioni, un laboratorio di incontri intriso di natura e di vita;
  • riportare la cultura dell’olivo nel Parmense;
  • condividere con i visitatori del Museo l’arte di estrarre l’olio d’oliva, oggi riscoperto, extravergine e certificato, non solo per arricchire le sfumature del gusto, ma anche come pilastro della dieta mediterranea;
  • accorciare la distanza tra produttore e consumatore, tra il frantoio e la nostra tavola accompagnando i visitatori del Museo in quel percorso magico che permette di imprigionare in una bottiglia l’essenza, estratta rigorosamente a freddo, dell’olivo;
  • essere un luogo in cui condividere con gli estimatori dell’extravergine l’amore per la bellezza, l’arte e la cultura; un laboratorio di incontri, per conoscere sempre più e sempre meglio gli estimatori dell’extravergine al t.o.p. (tracciabilità origine prodotto). Un luogo di condivisione, quindi, ma anche una fucina di idee per la lotta alla mediocrità e sofisticazione alimentare, un palcoscenico da cui lanciare proposte nuove o nuovi eventi che possano nutrire la mente e lo spirito.


Ecco ciò che si può trovare in questo spazio privilegiato e davvero unico!

Podere Fieniletto, Via Bruno Ferrari, 3 – 43017 San Secondo Parmense (PR)
www.museorsicoppini.it

È possibile visitare il museo solo su prenotazione, telefonando dal lunedì al venerdì dalle 10,00 alle 17,00 al numero 0521/877617 o scrivendo una e-mail all’indirizzo laura.lofino@coppini.it

Per le scuole il museo organizza degustazioni, percorsi tematici e di educazione alimentare da concordare con gli insegnanti, in continuità con il piano didattico nel corso dell’anno.
Per informazioni inviare una e-mail all’indirizzo laura.lofino@coppini.it

PER SAPERNE DI PIÙ

Una pianta di ulivo secolare in Liguria.

La diffusione dell’Olio d’Oliva

La coltivazione dell’olivo si diffonde intorno al 6000 a.C. in Asia Occidentale, più precisamente nel territorio compreso tra il sud del Caucaso, gli altopiani dell’Iran e le coste mediterranee della Siria e della Palestina. Le antiche popolazioni, tra cui i Fenici, iniziarono a trasformare le varietà selvatiche in specie domestiche, contribuendo alla diffusione dell’olivicoltura intorno al Mediterraneo.

L’Egitto Antico

La coltura dell’olivo si estese poi in Egitto, dove l’olio era considerato un bene di lusso e veniva impiegato per usi legati al sacro, come l’imbalsamazione. Il faraone Ramses III aveva un’intera piantagione di ulivi per godere della frescura, offrire i suoi frutti agli dei e produrre “il primo olio d’Egitto per far salire la fiamma nel palazzo sacro”, come riportato su un’iscrizione del tempio del dio Ra a Eliopoli.

Greci e Romani

I Fenici diffusero l’olivicoltura lungo tutte le coste del Mediterraneo, compresa la Grecia, dove divenne un simbolo di pace, fertilità e rinascita. Con la diffusione dell’olivo in tutti i Paesi mediterranei, i Romani, perfezionarono le tecniche di coltivazione e di estrazione dell’olio, espandendo ulteriormente il commercio e l’uso di questo prezioso liquido. Nell’VIII secolo a.C., a seguito della colonizzazione dell’Italia meridionale, da parte della Grecia l’olivo arrivò in Italia. Grazie al clima mite, divenne rapidamente un elemento trainante dell’economia.
Intorno al 600 a.C., l’olivo fu introdotto a Marsiglia e si diffuse in Gallia, Sardegna e Corsica e i Romani lo introdussero in Spagna, dove gli Arabi influenzarono ulteriormente la coltivazione, lasciando un’impronta linguistica nella terminologia legata all’olivo.

Medioevo e Rinascimento

Con la caduta dell’Impero Romano, la diffusione dell’olio d’oliva subì un periodo di decadenza, riprendendo vigore dopo l’anno Mille. Durante il Medioevo, i monasteri europei preservarono le tecniche di coltivazione degli olivi e la produzione di olio, che era anche utilizzato per illuminare gli ambienti tramite lampade ad olio. Con il Rinascimento, l’olio d’oliva divenne un prodotto commerciale importante, diffuso dai mercanti veneziani, fiorentini e genovesi in Oriente e nell’Europa del Nord.

L’olio extravergine di oliva, prezioso condimento in cucina.

L’Età Moderna

La scoperta dell’America nel 1492 segnò l’inizio della diffusione dell’olivo oltre il Mediterraneo. Gli olivi furono trasportati da Siviglia nel continente americano. A partire dal 1560, gli oliveti furono coltivati in Messico, Perù, California, Cile e Argentina. A partire dal XVIII secolo, le prime catalogazioni ufficiali degli olivi italiani evidenziarono le aree produttive principali, come Puglia, Toscana e Umbria.

L’Epoca Contemporanea

Nei tempi moderni, l’olivo ha continuato a diffondersi al di fuori del Mediterraneo, arrivando in regioni come l’Africa australe, l’Australia, il Giappone e la Cina. Oggi, l’olio d’oliva è celebrato per i suoi benefici per la salute e la sua versatilità in cucina. La produzione si è espansa ben oltre il Mediterraneo, e le tecniche di produzione si sono perfezionate.
Nel XX secolo, la produzione di olio d’oliva in Italia subì un rallentamento a causa delle guerre, ma riprese rapidamente. L’olio d’oliva è celebrato per i suoi benefici per la salute e oggi è un prodotto di prestigio, apprezzato per i suoi benefici nutrizionali e la sua versatilità in cucina.

L’Italia uscendo dalla guerra con la sua Costituzione ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e nel rovescio della sua più importante moneta da cento lire riporta l’immagine dell’antica e sempre immortale Athena o Minerva con il suo sacro ulivo, dea che abbiamo la possibilità d’intervistare. Se volete scoprire il legame tra la Dea Atena e l’ulivo non vi resta che leggere “L’intervista impossibile” a cura di Giovanni Ballarini.

Grande Dea Atena perché lei ha scelto l’olivo quale suo simbolo?

Quando ai primordi del mondo gli dei contendono per la supremazia sulla terra, il dio Poseidone scende con me in contesa per il possesso dell’Attica e squarcia la terra con il tridente facendo sgorgare da una pozza di acqua salmastra il cavallo. Io giovane dea della sapienza lo vinco quando con un colpo di lancia faccio spuntare dalla terra l’olivo, che dono all’umanità come pianta di pace, forza e sapienza. Così narra il mito sulla pianta a me sacra e che attraverso la cultura dei popoli orientali e del Mediterraneo entra a far parte della storia dell’umanità. Per i greci l’olivo diventa pianta sacra, per i Romani simbolo insigne per uomini illustri, per gli Ebrei segno di pace, giustizia, sapienza e prosperità, fin da quando, come si narra, calmatosi il diluvio universale, una colomba porta a Noè un ramoscello d’olivo per annunciargli che la terra e il cielo si sono riconciliati.

Molti sono i sui attributi e tra questi anche quello di glaucopide o dagli occhi lucenti. Un riferimento all’olivo?

Molti sono i miei riferimenti con l’olivo. Io sono detta glaukopis, dallo sguardo o dagli occhi lucenti blu-verdognoli, perché con la mia intelligenza rischiaro le tenebre dell’ignoranza umana, illumino il percorso degli uomini nell’oscurità della notte e nel percorso di civiltà. Anche l’olivo ha le foglie argentee che luccicano e il suo olio illumina le notti degli studiosi e dei ricercatori di verità. Come me, l’olivo, simbolo di pace, prosperità e luce, nasce in terreni difficili, se bruciato rinasce ogni volta più forte di prima perché le sue radici sono resistenti e non muoiono mai. È un albero speciale che non ha bisogno d’irrigazione e il suo frutto si ingrassa con la pioggia che Zeus invia dal cielo in tarda estate e in autunno. Una pianta anche connessa con la sessualità e la generazione, come si racconta per il parto della dea Latona appoggiata ad un albero di olivo ma soprattutto ce lo dice il talamo nuziale che l’astuto e ingegnoso Odisseo sposando la misteriosa Penelope segretamente predispone sul ceppo ben radicato in terra di un ulivo secolare. Un albero dal legno duro e nodoso è l’olivo, spesso contorto, compatto e difficile da scalfire e che rimane a lungo impermeabile alla penetrazione dei liquidi e degli odori e per questo molti e pregiati sono i suoi usi. L’olivo porta benedizione e fortuna ai viandanti e ai marinai, ramoscelli di olivo si portano ai vincitori delle gare che si svolgono nelle Panatenee e dà un frutto, cibo principale per il povero e legato anche ad una serie di valori connessi con la nascita e la riproduzione.

Proprio a quest’ultimo riguardo cosa mi dice?

Le olive sono un frutto che si mangia e si beve, in grado di medicare le ferite, curare le malattie, un elisir in grado di offrire prezioso nutrimento, donando benessere e pace. L’olio di oliva è ricco di valori connessi con la vita e la morte: vi si unge il neonato, si purifica il morto, si tonifica il guerriero, si premia l’atleta. Un olio che trasportando aromi, assume funzioni sacre che passano da una religione all’altra. Nel Cristianesimo l’olio d’oliva è il Crisma usato nei Sacramenti durante Battesimo, Confermazione, Unzione degli infermi e nella consacrazione di nuovi sacerdoti e vescovi simboleggia la benedizione divina. Dal punto di vista alimentare l’olio di oliva ha proprietà ideali e la sapienza della scienza sta individuando le sue preziose funzioni energetiche, vitaminiche e capacità di rendere gli alimenti più piacevoli. La sua composizione varia con la varietà degli olivi, condizioni agronomiche, processi di produzione, periodo, metodo di raccolta e sistema di estrazione dell’olio. Oggi sappiamo che quest’olio contiene acidi grassi monoinsaturi con un profilo lipidico che ha effetti protettivi sui disturbi cardiovascolari, autoimmuni e infiammatori, qualità antitrombotiche e regolatorie della pressione sanguigna, garantisce stabilità ossidativa nonché sostanze responsabili di proprietà sensoriali (colore, odore, sapore e retrogusto). L’olio di oliva è anche benefico per la pelle e durante l’antichità era usato per i massaggi.

Grande Dea Atena lei dice di aver creato l’olivo, ma come si è diffuso arrivando in Italia?

Il mito mi attribuisce la creazione dell’olivo domestico che accompagna la storia dell’umanità come simbolo di pace e prosperità e con un’origine intrecciata tra mito e religione. L’olivo selvatico nasce nell’Asia minore, tra il sud del Caucaso, gli altopiani dell’Iran e le coste mediterranee della Siria e della Palestina. Circa ottomila anni fa in questi territori inizia un addomesticamento con coltivazione dell’albero e dalle olive con strumenti rudimentali si ottiene il primo olio. In tempi successivi e con un cammino guidato anche dai cambiamenti climatici e dai commerci dei Fenici l’olivo viene diffuso su tutte le coste Mediterranee dell’Africa e del Sud Europa. Con il suo olio arriva in Italia, prima meridionale e poi settentrionale.

Nella quiete di un tiepido tramonto, vicino all’Olivo Patriarca di Mulazzano di Lesignano Bagni (PR) e mentre un dolce vento ne fa inclinare un ramo, sento un suo bisbiglio di benvenuto. Non mi meraviglio perché anche gli alberi parlano e con loro si può dialogare, come fin dalla mia infanzia ho imparato da Giosuè Carducci (1835-1907) che davanti a San Guido conversa con i cipressetti della sua infanzia.

Illustre Patriarca, le chiedo come si trova qui, solitario e in questo periodo di trasformazioni e di cambiamenti di clima.

Patriarca, lei come altri così mi chiama, perché ho visto ottocento primavere, come Matusalemme che ne ha viste novecento (o erano solo lune?), ma non sono solo né l’unico. Anche in Italia vi è un buon numero di alberi pluricentenari, anche se, di tanto in tanto, qualcuno di noi anziani sparisce anche per incuria umana. Qui nel Parmense, a Viazzano, vive un altro olivo monumentale, ancora produttivo, che ha resistito al passaggio del tempo con la sua corona di polloni da dodici metri di circonferenza e che è uno dei più antichi di tutta l’Emilia. Aggiungo che vivo in un territorio di antica olivicoltura, non solo per una mia memoria, ma anche per quello che mi è stato tramandato da chi mi ha preceduto. Quando sono nato molti secoli fa, gli allora anziani olivi mi hanno raccontato storie che risalgono al pieno Medioevo di Carlo Magno (742-814), quando vi erano climi diversi, senza andare più indietro come il periodo caldo romano (250 a.C. – 400 d.C.) dove moltissimi olivi erano in queste terre. Io qui nasco in un periodo di riscaldamento climatico, quando in Inghilterra si coltiva la vite e la Groenlandia è verde. Questo clima favorisce l’olivicoltura nel Parmense, come dimostrano gli olivi plurisecolari ancora oggi visibili in vari punti della nostra provincia, spesso situati vicino a monasteri ed edifici di culto per via degli usi religiosi dell’olio, o vicino a castelli e case fortificate e spesso posti su scarpate dove solo l’olivo poteva essere coltivato. In questo periodo Giberto da Gente (1200-1270) Podestà di Parma nello statuto del 1258, il cui manoscritto miniato è conservato nell’Archivio di Stato di Parma, fa piantare, allevare e mantenere ulivi in circa trenta luoghi del territorio parmigiano. Nell’atto legislativo De olivis per episcopatum allevari faciendis si impone a ogni famiglia dei Comuni e località presenti nella fascia collinare della provincia di Parma, compresi tra un’altitudine di cento e quattrocento metri, di piantare e coltivare, bonificare e mantenere venti piante di olivo il primo anno ed altre dieci per gli anni successivi. I luoghi dove impiantare gli olivi sono i seguenti: Bazanum, Guardaxonum, Traversetulum, Castilionum, Rivalia, Mulazanum, Cazola de Rivalta, Lisignanum, Torclarea, Arolis, Casaticum, Langhiranum, Mataletum, Castrum, Rignanum, Strognanum, Padernum, Cirlianum, Castrum de Felino, Castrum de Tullorio, Munte Pallerium, Sanlarium, Ceretulum, Sanctis Vitalis Bagantiae, Limide, Maliaticum, Nivianum, Segalaria, Furnovum, Casellae de Furnovo, Fosium et omnes aliae terrae ultra Taronum et ultra Cenum usque ad planum per totam parmexanam. Ancora oggi il toponimo della località Ramiola, in cui sono stati individuati antichi olivi, sembrerebbe derivare dal latino ramus oleae, ramo di olivo, a memoria delle antiche piantagioni.

Gentile Patriarca, da dove deriva l’interesse per la coltivazione dell’olivo nel Parmense?

Molti sono gli inimitabili pregi dell’olio di oliva e dei suoi usi religiosi, curativi, alimentari e simbolici. Anche in Italia settentrionale quello d’oliva è l’olio commestibile per eccellenza e a Parma il daziario del 1386 lo distingue dagli altri oli, che sono invece classificati come a comburendo, usati cioè come combustibile per le lampade. Purtroppo, dopo i bei tempi nei quali sono nato, ho anche visto tempi avversi se non ostili, che hanno fatto scomparire gran parte dei miei compagni. Nell’anno 1432 il freddo secca molti olivi insieme agli allori e agli alberi di fico e analoghi eventi si registrano dal Millesettecento in avanti. Ora però sembra stia iniziando un periodo sempre più caldo che ricorda quello da dove proviene la mia specie.

La ringrazio e le auguro lunga vita con un’ultima domanda: clima e cambiamenti climatici hanno determinato la sua esistenza. Cosa pensa di quanto sta ora avvenendo?

La nostra vita di olivi, nonostante quanto si possa credere, è mobile e sia pure lentamente le nostre popolazioni si spostano con i nostri semi trasportati dagli animali, abbandonando ambienti e climi divenuti sfavorevoli e conquistando o riconquistando quelli propizi. Mentre noi sviluppiamo difese e adattamenti contro le avversità di cambiamenti climatici e di attacchi da parte di parassiti antichi e nuovi, la nostra diffusione è anche opera dell’uomo, che agisce per eventi economici, politici, culturali e soprattutto oggi per nuove conoscenze tecniche e scientifiche. In questo momento di cambiamento climatico del territorio nel quale risiedo, mi piace prevedere il ritorno di un felice passato nel quale tutta la fascia pedecollinare appenninica di questa Parma era coperta di oliveti per la produzione di olive e oli pregiati. Come raccontano i preziosi reperti esposti al Museo di Arte Olearia di San Secondo Parmense. Già oggi in questa Pianura Padana si coltiva il grano duro per la pasta e il pomodoro, colture tipicamente mediterranee, e i vigneti arrivano sulle vette. Un futuro che sa di antico è il nostro ritorno di ulivi in queste terre, un ritorno che ritengo sicuro perché supportato dalle ricerche di molti uomini valorosi che studiano e lavoravo nelle Università e negli Istituti di Ricerca.

Frontespizio manoscritto del primo volume degli Statuta Communis Parmae del 1255 (Parma, Archivio di Stato). Vi sono riportate numerose indicazioni per l’impianto e la coltivazione degli ulivi nel territorio parmense.

La diffusa coltivazione degli ulivi nel Parmense risale agli etruschi, che selezionarono varietà resistenti al freddo, e proseguì in epoca romana e per tutto il Medioevo e il Rinascimento, ma venne successivamente abbandonata per il brusco irrigidimento del clima e per dare spazio a coltivazioni più redditizie. Rimangono però alcuni monumentali alberi di olivo che testimoniano questa antichissima tradizione, come lo splendido olivo secolare di Mulazzano.

L’olivo secolare di Terenzo, che sorge nei pressi di un antico monastero. La coltivazione dell’olivo era infatti stata diffusa – al pari della vite – dagli ordini monastici.

La raccolta delle olive in epoca medievale in una miniatura del Theatrum Sanitatis del XIV secolo: una donna ripone le olive raccolte dall’uomo in un cesto di vimini (Vienna, Österreichische Nationalbibliotek, cod. n. 2644).

Differenti varietà di olive, tavola illustrata dal trattato Degli ulivi, delle ulive e della maniera di cavar l’olio, di Giovanni presta, pubblicato a Napoli nel 1794 (Parma, Collezione privata).

La diffusa coltivazione degli ulivi nel Parmense risale agli etruschi, che selezionarono varietà resistenti al freddo, e proseguì in epoca romana e per tutto il Medioevo e il Rinascimento, ma venne successivamente abbandonata per il brusco irrigidimento del clima e per dare spazio a coltivazioni più redditizie. Rimangono però alcuni monumentali alberi di olivo che testimoniano questa antichissima tradizione, come lo splendido olivo secolare di Mulazzano.

L’olivo patriarca di Mulazzano

Nella quiete di un tiepido tramonto, vicino all’Olivo Patriarca di Mulazzano di Lesignano Bagni (PR) e mentre un dolce vento ne fa inclinare un ramo, sento un suo bisbiglio di benvenuto. Non mi meraviglio perché anche gli alberi parlano e con loro si può dialogare, come fin dalla mia infanzia ho imparato da Giosuè Carducci (1835-1907) che davanti a San Guido conversa con i cipressetti della sua infanzia.

Illustre Patriarca, le chiedo come si trova qui, solitario e in questo periodo di trasformazioni e di cambiamenti di clima.

Patriarca, lei come altri così mi chiama, perché ho visto ottocento primavere, come Matusalemme che ne ha viste novecento (o erano solo lune?), ma non sono solo né l’unico. Anche in Italia vi è un buon numero di alberi pluricentenari, anche se, di tanto in tanto, qualcuno di noi anziani sparisce anche per incuria umana. Qui nel Parmense, a Viazzano, vive un altro olivo monumentale, ancora produttivo, che ha resistito al passaggio del tempo con la sua corona di polloni da dodici metri di circonferenza e che è uno dei più antichi di tutta l’Emilia. Aggiungo che vivo in un territorio di antica olivicoltura, non solo per una mia memoria, ma anche per quello che mi è stato tramandato da chi mi ha preceduto. Quando sono nato molti secoli fa, gli allora anziani olivi mi hanno raccontato storie che risalgono al pieno Medioevo di Carlo Magno (742-814), quando vi erano climi diversi, senza andare più indietro come il periodo caldo romano (250 a.C. – 400 d.C.) dove moltissimi olivi erano in queste terre. Io qui nasco in un periodo di riscaldamento climatico, quando in Inghilterra si coltiva la vite e la Groenlandia è verde. Questo clima favorisce l’olivicoltura nel Parmense, come dimostrano gli olivi plurisecolari ancora oggi visibili in vari punti della nostra provincia, spesso situati vicino a monasteri ed edifici di culto per via degli usi religiosi dell’olio, o vicino a castelli e case fortificate e spesso posti su scarpate dove solo l’olivo poteva essere coltivato. In questo periodo Giberto da Gente (1200-1270) Podestà di Parma nello statuto del 1258, il cui manoscritto miniato è conservato nell’Archivio di Stato di Parma, fa piantare, allevare e mantenere ulivi in circa trenta luoghi del territorio parmigiano. Nell’atto legislativo De olivis per episcopatum allevari faciendis si impone a ogni famiglia dei Comuni e località presenti nella fascia collinare della provincia di Parma, compresi tra un’altitudine di cento e quattrocento metri, di piantare e coltivare, bonificare e mantenere venti piante di olivo il primo anno ed altre dieci per gli anni successivi. I luoghi dove impiantare gli olivi sono i seguenti: Bazanum, Guardaxonum, Traversetulum, Castilionum, Rivalia, Mulazanum, Cazola de Rivalta, Lisignanum, Torclarea, Arolis, Casaticum, Langhiranum, Mataletum, Castrum, Rignanum, Strognanum, Padernum, Cirlianum, Castrum de Felino, Castrum de Tullorio, Munte Pallerium, Sanlarium, Ceretulum, Sanctis Vitalis Bagantiae, Limide, Maliaticum, Nivianum, Segalaria, Furnovum, Casellae de Furnovo, Fosium et omnes aliae terrae ultra Taronum et ultra Cenum usque ad planum per totam parmexanam. Ancora oggi il toponimo della località Ramiola, in cui sono stati individuati antichi olivi, sembrerebbe derivare dal latino ramus oleae, ramo di olivo, a memoria delle antiche piantagioni.

Frontespizio manoscritto del primo volume degli Statuta Communis Parmae del 1255 (Parma, Archivio di Stato). Vi sono riportate numerose indicazioni per l’impianto e la coltivazione degli ulivi nel territorio parmense.

Gentile Patriarca, da dove deriva l’interesse per la coltivazione dell’olivo nel Parmense?

Molti sono gli inimitabili pregi dell’olio di oliva e dei suoi usi religiosi, curativi, alimentari e simbolici. Anche in Italia settentrionale quello d’oliva è l’olio commestibile per eccellenza e a Parma il daziario del 1386 lo distingue dagli altri oli, che sono invece classificati come a comburendo, usati cioè come combustibile per le lampade. Purtroppo, dopo i bei tempi nei quali sono nato, ho anche visto tempi avversi se non ostili, che hanno fatto scomparire gran parte dei miei compagni. Nell’anno 1432 il freddo secca molti olivi insieme agli allori e agli alberi di fico e analoghi eventi si registrano dal Millesettecento in avanti. Ora però sembra stia iniziando un periodo sempre più caldo che ricorda quello da dove proviene la mia specie.

La ringrazio e le auguro lunga vita con un’ultima domanda: clima e cambiamenti climatici hanno determinato la sua esistenza. Cosa pensa di quanto sta ora avvenendo?

La nostra vita di olivi, nonostante quanto si possa credere, è mobile e sia pure lentamente le nostre popolazioni si spostano con i nostri semi trasportati dagli animali, abbandonando ambienti e climi divenuti sfavorevoli e conquistando o riconquistando quelli propizi. Mentre noi sviluppiamo difese e adattamenti contro le avversità di cambiamenti climatici e di attacchi da parte di parassiti antichi e nuovi, la nostra diffusione è anche opera dell’uomo, che agisce per eventi economici, politici, culturali e soprattutto oggi per nuove conoscenze tecniche e scientifiche. In questo momento di cambiamento climatico del territorio nel quale risiedo, mi piace prevedere il ritorno di un felice passato nel quale tutta la fascia pedecollinare appenninica di questa Parma era coperta di oliveti per la produzione di olive e oli pregiati. Come raccontano i preziosi reperti esposti al Museo di Arte Olearia di San Secondo Parmense. Già oggi in questa Pianura Padana si coltiva il grano duro per la pasta e il pomodoro, colture tipicamente mediterranee, e i vigneti arrivano sulle vette. Un futuro che sa di antico è il nostro ritorno di ulivi in queste terre, un ritorno che ritengo sicuro perché supportato dalle ricerche di molti uomini valorosi che studiano e lavoravo nelle Università e negli Istituti di Ricerca.

La locandina di El Olivo (2016). L’attrice protagonista, Anna Castillo, è stata insignita del Premio Goya 2017 come miglior attrice rivelazione

In questa pellicola del 2016 la regista Icíar Bollaín non si allontana di molto dalla sua terra natìa (Madrid), né dal suo stile icastico e impregnato di critica sociale, ambientando una storia umile e famigliare nella brulla provincia valenciana. Il progetto, girato tra il maggio e il giugno del 2015, è stato insignito del Premio Goya per la miglior attrice emergente (Anna Castillo), con sceneggiatura realizzata dalla straordinaria ed eclettica penna di Paul Laverty.

La trama

In questo progetto ricorrono senz’altro i temi tipici del Cinema in stile Bollaín, che spesso tende a trattare questioni delicate come la violenza di genere e lo sfruttamento ambientale. Questo secondo aspetto è centrale nello sviluppo della storia, nella quale la critica all’atteggiamento scriteriato dell’uomo nei confronti della natura è tutt’altro che celata. Tuttavia i toni, meno aspri e idealisti rispetto ad altre opere della regista, sono delicati e a tratti commoventi. Alma, interpretata appunto da Anna Castillo, è una protagonista giovane e intraprendente, inscindibilmente legata alla figura di suo nonno, uomo burbero e solitario, il più classico degli uomini di campagna. I figli di nonno Ramón (Manuel Cucala) hanno deciso di vendere un olivo millenario, appartenente da generazioni alla famiglia, provocando una ferita irreparabile nell’animo dell’anziano coltivatore. Quando l’uomo smette addirittura di parlare, affranto dalla perdita dell’albero tanto adorato in gioventù, la nipote decide di adoperarsi per recuperare la pianta e regalare un’ultima gioia a quello che, a tutti gli effetti, è il suo modello di riferimento. Ne consegue un’avventura eccitante e spericolata, che porta Alma al di fuori dei confini nazionali, accompagnata da due amici e decisa a compiere la sua missione. L’immagine dell’olivo di famiglia, intrappolato nella hall di un freddo e asettico palazzo di vetro, riassume perfettamente il messaggio principale del film: la tendenza umana a “commercializzare” anche le opere più pure della terra, sradicando le tradizioni in nome del profitto e del possesso.

L’olivo

Nella pellicola la pianta d’olivo è la rappresentazione del vecchio Ramón, morente ed appassito, trapiantato in un mondo che ormai non gli appartiene più. Al tempo stesso la determinazione della giovane Alma porta con sé un barlume di speranza, dimostrando che esiste ancora, a discapito di tutto, la speranza di tenere in vita i tesori del passato. Questo spirito di lotta per tutelare la natura dall’irresponsabilità e dagli egoismi economici è quanto mai attuale e necessaria, anche se la regista riesce a raccontarla con humor e leggerezza, in un road-movie adatto a tutte le età. Emerge infine la descrizione di una Spagna che somiglia moltissimo a certe regioni italiane, legate più di altre al proprio patrimonio storico e naturalistico. Pensandoci bene, l’Emilia non è poi così diversa dalla comarca valenciana in cui è ambientata questa storia, almeno in termini di ricchezza storica e di amore per il territorio. Un film semplice ma profondo, adatto soprattutto a chi è innamorato della propria terra, qualunque essa sia.

Testa di contadina con cuffia bianca” di Vincent Van Gogh, olio su tela dipinto a Neunen nel 1884. I dettagli resi visibili dalla pittura ad olio, specie nelle pennellate abbondanti del pittore olandese, sono esteticamente inimitabili, impossibili da emulare servendosi di altre tecniche pittoriche

Chi di noi è estraneo al termine “olio su tela”? Probabilmente nessuno, anche solo per le reminiscenze dei propri studi d’arte alle scuole medie e superiori. La tecnica della pittura a olio, per quanto spesso sia menzionata, è in realtà ben più complessa e sfaccettata di quanto si pensi. L’impiego di oli siccativi, che appunto “seccano” se esposti all’aria, con dei pigmenti in polvere ha del tutto rivoluzionato il modo di dipingere di migliaia di artisti, influendo soprattutto sulla longevità delle opere. Gli oli utilizzati formano infatti, entrando in contatto con l’ossigeno, una pellicola detta “film” che è sostanzialmente insolubile. La viscosità dell’olio rende anche più vividi gli “sfumati”, permettendo agli artisti di giocare coi colori, servendosi di una gamma cromatica estremamente variegata e impossibile da emulare utilizzando, ad esempio, i colori a tempera.

Le origini

La tecnica pittorica a olio si sviluppa nelle Fiandre all’inizio del XV secolo, giungendo nelle principali città italiane, soprattutto a Roma, Firenze e Venezia attorno al 1470. Antonello da Messina (1430-1479), fu tra i primi a recepire l’innovazione fiamminga, intuendone le enormi potenzialità, sia in termini di creatività artistica, sia in merito alla conservazione delle opere nel tempo. Una volta sdoganata, la pittura a olio è diventata tanto popolare da essere la favorita di molti degli artisti più importanti del nostro Paese, tra i quali spiccano i nomi di Leonardo Da Vinci e di Tiziano, oltre che il marchio di fabbrica (non l’unico, ma tra i più importanti) di quello che è probabilmente il pittore più celebre di sempre: l’olandese Vincent Van Gogh.

Gli oli utilizzati

L’olio di lino è certamente tra i più adatti alla pratica pittorica, essendo il principe degli oli essiccanti. In questa categoria rientrano anche l’olio di papavero e quello di noce. Alcuni oli essenziali come l’essenza di trementina e quella di rosmarino sono, oltre che molto più costosi, meno soggetti all’ingiallimento e più fluidi e “leggeri”, adatti quindi a rendere la lucentezza dei dettagli dell’opera. Un limite della pittura ad olio è senz’altro determinato dalla lunghezza dei tempi di asciugatura, non certo adatti ad una produzione artistica “seriale”. Inoltre è possibile che, sul lungo periodo, perdano lucentezza e che i toni di colore diventino più scuri. In realtà questo difetto è riconducibile all’utilizzo di sostanze essiccanti, impiegate proprio per accelerare l’asciugatura delle tele.

Un set acetoliera in vetro. I recipienti da tavola sono stati oggetto delle rivisitazioni più disparate, diventando un soggetto molto amato dai moderni designer

L’olio, in particolare l’olio d’oliva, chiamato “oro liquido” fin dall’antichità, è ritenuto il cuore della cultura alimentare delle civiltà che si sono affacciate sul bacino del Mediterraneo. Inoltre, questo nobile prodotto ricopre anche un ruolo di rilievo sotto l’aspetto simbolico, rituale e culturale.

Storia e mitologia dell’olio

Nella mitologia greca si narra che l’olivo sia nato grazie alla dea Atena, in gara con Poseidone per vincere la sfida del dono più bello da fare all’uomo. Sull’Acropoli di Atene, percosse il terreno con una lancia e apparì il primo albero di olivo, che Zeus sancì vincitore sul vigoroso cavallo presentato da Poseidone. L’olivo è pianta sacra per tutti i popoli mediterranei: nella tradizione ebraica nasce tra le labbra di Adamo sepolto sul monte Tabor; nel libro della Genesi ad annunciare la fine del diluvio universale è una colomba con un rametto d’ulivo nel becco come segno della pace ristabilita tra Dio e l’umanità; nell’Islam è considerato l’Albero Benedetto e soprattutto la fonte della luce, tramite l’olio che fornisce. L’olio è stato ed è presente nella vita quotidiana dell’uomo: se ne spalmavano gli atleti dell’antichità prima di gareggiare; la sansa, parte di scarto della lavorazione delle olive, veniva usata come balsamo per i dolori muscolari. L’olio è inoltre impiegato come base di creme e unguenti per nutrire la pelle, così come per ricercati profumi. Infine è utile per alcune fasi della lavorazione della lana e viene adoperato in medicina, come ricordano diversi antichi autori.

L’oliera

L’oggetto destinato a contenere e a servire olio è – da sempre – l’oliera, non di rado abbinata a un contenitore “gemello” per l’aceto. Si tratta in genere di piccole ampolle a fondo piatto con un collo stretto. Le oliere hanno spesso un becco e un manico e possono presentare un tappo o una copertura realizzati con diversi materiali. Le oliere più antiche e rustiche furono di semplice terracotta smaltata, munite di un tappo di sughero. Nel corso del tempo, pur restando invariata la funzione, si ampliò la gamma dei materiali (ceramica, porcellana, vetro, acciaio) e parallelamente mutarono gli stili e i decori, variando dalle forme più classiche a quelle più moderne e attingendo ai motivi iconografici propri delle varie regioni e delle differenti tradizioni artistiche. Acetoliere d’argento di raffinata eleganza sono state realizzate nel XIX secolo a Parma, con decori in stile Neoclassico che privilegiavano le forme semplici e lineari. Nello stesso periodo furono popolari anche gli stilemi di ispirazione imperiale, che si rifacevano ai modelli francesi giunti in città al seguito della duchessa Maria Luigia d’Austria. Oggi le oliere sono dotate di un tappo dosatore per regolare il flusso dell’olio in fase di condimento ed evitare sgradevoli macchie di unto sulla tovaglia o sul piano d’appoggio. Inoltre, in età contemporanea, così come è accaduto per altri utensili, come lo scolapasta o la grattugia, l’oliera è divenuta oggetto d’interesse e di studio per vari designer, che l’hanno trasformata da semplice arnese da cucina in manufatto talora di grande fantasia e bellezza, da esibire anche come complemento d’arredo.

Curiosità

Inutile cercare le vecchie oliere “vintage” sul tavolo di ristoranti e pizzerie. Le panciute fiaschette che per anni ci hanno fatto compagnia non ci sono più, se non sugli scaffali dei musei o in ambito domestico.
Dal 2013 la legge europea 2013 bis prescrive che i contenitori di olio extra vergine d’oliva utilizzati negli esercizi siano dotati di tappo anti-rabbocco. Lo scopo della norma è soprattutto impedire che le oliere siano riempite di prodotti diversi da quelli indicati dall’etichetta. Inoltre, l’articolo 18 della Legge comunitaria impone anche l’indicazione del termine “miscela” per gli oli originari di più di uno stato membro dell’Unione Europee e ciò per evitare l’uso dell’indicazione “Made in Italy” per oli non interamente prodotti in Italia.

Busto commemorativo di Frédéric Mistral (1830-1914) a Vaucluse (Francia). L’autore fu tra i fondatori del Felibrismo, movimento letterario nato proprio a Vaucluse e finalizzato, sull’onda lunga del romanticismo, alla valorizzazione dell’identità nazionale e locale, ponendo l’accento sulla difesa della lingua occitana e della cultura provenzale

I suoi rami sono simbolo di pace e prosperità e i suoi frutti una squisitezza amata in tutto il mondo, simbolo della cultura mediterranea. Ma nelle radici dell’olivo e tra le crepe coriacee del suo tronco rivivono le parole di centinaia di poeti e scrittori, che in qualche modo lo hanno menzionato nelle proprie opere.

Montale, Ungaretti, D’Annunzio, passando per Pascoli e Ungaretti: tutti i grandi della letteratura italiana contemporanea hanno reso un loro personale omaggio alla pianta di Atena, che si pensa sia originaria dell’Asia Minore, dove è sempre cresciuta spontaneamente.

Tuttavia esiste un tributo letterario all’olivo che è forse meno conosciuto di altri, almeno nel nostro Paese. Ciò non toglie che il suo valore artistico sia smisurato. Stiamo parlando di una raccolta di poesie di Frédéric Mistral (1830-1914), autore originario della Francia meridionale, precursore assoluto in ambito poetico e deciso difensore della lingua occitana, “letteraria” nelle sue stesse sonorità e nella sua “ritmica”, che mescola più influenze storiche e culturali. I suoi scritti sono quasi sempre espressione del suo territorio. Il suo paese di nascita, lo stesso in cui Mistral morì, è Maillane (Maiano), piccolo villaggio nei pressi di Arles (la stessa “Arli” citata da Dante nel canto IX dell’Inferno). Nella sua raccolta di poesie intitolata “Lis Olivado” Mistral lascia un’ultima esaltazione della Provenza e delle sue straordinarie bellezze. Tra queste, viste le caratteristiche climatiche della zona, non possono mancare i sacri olivi. Quest’opera dell’autore provenzale sarà l’ultima a venire pubblicata prima della sua morte. La sua penna elegante, portavoce di un attaccamento fraterno alla sua terra natìa, gli valse il Premio Nobel per la Letteratura (1904):

“Il tempo che si rinfresca ed il mare che si increspa,
Tutto mi dice che l’inverno è arrivato per me
E che bisogna, senza indugio, raccogliere le mie olive,
E offrirne l’olio vergine all’altare del buon Dio”.

Dopo la sua morte, il poeta è divenuto un simbolo per l’intera regione che gli ha dato i natali. Ad oggi le sue opere sono documenti che consentono di conservare la lingua occitana, spazzata via da quella francese già ai tempi in cui lo stesso Mistral era in vita.

Sapevate che Parma, dal 2014 è anche Città dell’Olio? È stata dichiarata dall’Associazione Nazionale Città dell’Olio. Parma città e il territorio circostante, hanno ampliato la loro offerta enogastronomica, aggiungendo ai già celebri prodotti anche un olio d’oliva extravergine.

La conoscenza dell’olivicoltura arrivò in territorio Parmense grazie agli Etruschi. Già tra il I e II secolo a.C. sono documentate piante di ulivo nella provincia, ma è ragionevole pensare che siano stati i Romani a impiantare i primi uliveti per la produzione di olio nelle zone collinari anche grazie ad un importante cambiamento climatico che aveva reso possibile la coltivazione dell’olivo così a nord.

Dopo la perdita d’interesse verso questa coltivazione da parte delle popolazioni barbariche che s’insediarono in Pianura Padana dopo la dominazione romana, l’ulivo trovò rifugio nei monasteri benedettini e cistercensi, dove veniva utilizzato per scopi liturgici e per l’illuminazione più che per l’uso alimentare.

Nel Parmense, la pianta riprese a far parlare di sé tra il XII e il XIV secolo, quando raggiunse il momento di massima diffusione nella Pianura Padana. A testimonianza di ciò sono stati ritrovati innumerevoli Statuti, Editti e Ordinanze che obbligavano gli agricoltori a piantare ulivi.

Questo periodo storico coincise con un innalzamento delle temperature mondiali, che favorì positivamente l’olivicoltura nel Parmense. Alcuni toponimi parmigiani: Ramiola (da ramus olea), Torchiara (da torcularia, paese dei torchi da olive) e diversi alberi secolari superstiti ce ne danno ancor oggi testimonianza.

L’Agorà del Museo d’Arte Olearia, dotata di tutti i supporti tecnologici atti ad ospitare spettacoli ed eventi di vario genere

Allestito in un ex caseificio dell’Ottocento, il Museo d’Arte Olearia di San Secondo Parmense è una vera e propria “Arca della cultura”, la cui finalità è quella di preservare la memoria del territorio, consegnando i miti, le storie e le tecniche produttive dell’olio alla contemporaneità. Nato nel 2009 su iniziativa della famiglia Coppini, il grande centro culturale si sviluppa attorno all’antico podere, estendendo i suoi confini nel verdeggiante parco che lo circonda.

Gli esterni

L’Agorà, un teatro all’aperto che può ospitare fino a 500 persone, è incorniciata da una serie olivi secolari. In questo spazio vasto e luminoso si tengono spesso spettacoli e manifestazioni a sfondo culturale, sempre legate all’olio e alle innumerevoli conoscenze e leggende legate alla sua storia. La realtà museale offre inoltre diverse attività laboratoriali adatte a tutte le età, alla scoperta di un prodotto che tutti, bene o male, consumiamo quotidianamente. L’olio è un manifesto della cultura Mediterranea, uno dei simboli della Repubblica italiana e un perfetto esempio di fusione tra tecniche tradizionali e innovazione sostenibile. Il vasto parco naturale di disegno contemporaneo, a pochi passi dalla Rocca dei Rossi di San Secondo, è costellato di antichissimi ulivi diventati astratte ed evocative sculture, di macchinari storici ed elementi architettonici di grande pregio.

Gli spazi interni

Dedicate ad Americo e Anita Coppini, le sale interne del Museo sono destinate all’esposizione di attrezzi legati alla produzione olearia, tra i quali un torchio tradizionale “a strettojo”, una pressa a leva e diversi torchi idraulici, frutto dell’evoluzione tecnologica, oltre che diversi separatori anch’essi meccanici. Sono presenti anche una sala di lettura e una dedicata a convegni e riunioni.

L’olio e l’olivo: tutela e sostenibilità

Con ben 583 “cultivar” (varietà agrarie di una specie botanica) l’Italia è il paese con la più fiorente e multiforme biodiversità olivicola al mondo. I nostri olivi sono tuttavia in crisi a causa delle condizioni climatiche sempre più imprevedibili, con estati torride e inverni gelati, uniti ad una diminuzione costante delle precipitazioni in uno scenario che vede il “mercato dell’olio” come un vastissimo ecosistema di realtà medio-piccole, con una componente di artigianalità che è ancora assai significativa. La crisi pandemica ha rallentato le importazioni e le esportazioni, dando un duro colpo al mondo dell’olio e, in generale, a quello agroalimentare. La speranza in un futuro promettente sta nel rinnovamento degli impianti di estrazione e in una coltivazione di olivi più intensa e stratificata, volta a favorire l’imprenditorialità, rimanendo però nel pieno rispetto delle risorse idriche e del terreno. L’olio è uno dei prodotti che più celebra la nostra cultura nel mondo. Proprio per questo le attività proposte dal Museo Agorà Coppini sono di fondamentale importanza. Ancora una volta Parma e provincia sono in prima linea per difendere il primato enogastronomico italiano.

Pressa a leva e a vite in legno di rovere, Centro Italia, XVI-XVII secolo (San Secondo, Museo d’Arte Olearia).

Particolare della vite della pressa a leva in legno di rovere (San Secondo, Museo d’Arte Olearia).

Il Mediterraneo è la culla dell’olio e delle olive. Un prodotto unico per qualità organolettiche e per valore nutrizionale, alla base della più famosa e invidiata cucina mediterranea e vero perno di una cultura ricca e unica fatta di lavoro della terra, rituali lontani ma ancora oggi celebrati, una tecnologia vecchia come il mondo ma capace di innovarsi. Un piccolo angolo del Mediterraneo è presente anche nella provincia parmense, raccontato all’interno del Museo d’arte olearia Orsi Coppini. Passeggiando tra le sale si potrà ammirare e conoscere la collezione di macchinari da frantoio raccolti dalla famiglia Coppini. Un lungo viaggio nella storia e nella tecnica di lavorazione delle olive che possiamo qui ripercorrere insieme.

Prima tappa di questo viaggio nel tempo è nella Sala dei Torchi dove si trova la pressa a leva e a vite, esemplare in legno di rovere del secolo XVI-XVII, proveniente dal centro Italia.

Torchio da olive in rovere ad una vite “alla genovese”, Calabria, XVII secolo (San Secondo, Museo d’Arte Olearia).

Torchio per la spremitura delle olive in ferro, Napoli, 1882 (San Secondo, Museo d’Arte Olearia).

Questa macchina è descritta con minuzia di particolari da Vittorio Zonca nel noto trattato Novo teatro di machine et edificii, pubblicato nel 1607. Una delle macchine più antiche per la spremitura delle olive, citata già in epoca romana (da Catone, da Columella e dal matematico Erone), la pressa a leva con vite senza fine e contrappeso, perfezionata da Plinio, rappresentò per molti secoli l’unico ordigno oleario usato nell’Italia centro-settentrionale per la spremitura.

Questo sistema è stato utilizzato in molte aree olivicole, soprattutto quelle a evoluzione tecnologica molto lenta, sino alla fine del XIX secolo. Sarà definitivamente sostituita dai torchi ad una vite (“alla genovese”) che erano molto più funzionali e meno ingombranti.  Al centro si nota una colonna di fiscoli (in cui veniva inserita la pasta di olive) sottoposti all’enorme pressione della trave in legno di rovere, su cui è incisa una croce che aveva funzione benaugurale.

Proseguendo la visita aggiungiamo poi il torchio da olive proveniente dalla Calabria. Questo torchio o strettojo ad una vite del tipo “alla genovese” in legno di rovere è databile al XVIII secolo. Sotto la pressa si scorge una colonna di fiscoli – sacche in fibra vegetale intrecciata che venivano riempiti con la pasta delle olive macinate dal frantoio – e la “pila” in pietra incavata per la raccolta dell’olio appena spremuto. Introdotta nell’Italia meridionale a partire dal 1768, questa macchina, più semplice e maneggevole, sostituì ben presto la presa a leva, molto più antica e ingombrante, ampiamente diffusa nell’Italia settentrionale.

Frantoio a due pietre molari prodotto dalle Officine Meccaniche Toscane, 1940-1950 (San Secondo, Museo d’Arte Olaearia).

La collezione di torchi visibili nel museo conta anche un esemplare di torchio per la spremitura delle olive in ferro del 1882 di area napoletana. È agli inizi dell’Ottocento che compaiono i primi torchi o “strettoj a vite” di ferro, che affiancano, e in parte sostituiscono, quelli tradizionali di legno, il cui funzionamento di basavo sul movimento “a leva semplice” (a stanga), sul movimento “a cricco” e “a leva multipla”. L’esemplare di “Strettojo a cerchioni Sistema OOMENS” della collezione Coppini è azionato con movimento “a cricco” ed è stato costruito nello Stabilimento Fonderia di ferro e Opificio meccanico Luigi Oomens di Napoli nel 1882.

La collezione poi conta anche macchine del secolo scorso come il piccolo frantoio in pietra a due pietre molari (o molazze) in granito ruotanti in senso verticale realizzato dalle Officine Meccaniche Toscane tra il 1940 e il 1950.

Si stima che in Italia ci siano ben 150 milioni di olivi. L’olivo è una pianta che, con le dovute cure, prospera velocemente e che può arrivare a vivere per millenni

Dal ramo dell’olivo fino alle oliere che abitano le nostre tavole, il ciclo di “vita” delle olive è frutto di una tradizione millenaria. Le tecniche classiche sono oggi affiancate da supporti meccanici che ne facilitano la raccolta e favoriscono il mantenimento delle loro caratteristiche naturali. I vari passaggi di lavorazione variano da regione a regione, ma si può generalmente ridurre l’intero processo a sei fasi principali.
Innanzitutto le olive vengono raccolte manualmente o sfruttando degli appositi abbacchiatori meccanici. A questo punto i frutti vengono portati il più in fretta possibile in oleificio, per evitarne l’ossidazione e il deperimento.
In seguito viene effettuata la “deramifogliazione” con apposite macchine rotative, in grado di rimuovere velocemente il fogliame in eccesso.
A questo passaggio segue il lavaggio, anch’esso primariamente svolto da macchine lavatrici con flussi d’acqua intensi, atti a separare il prodotto da ogni impurità.
C’è poi la cosiddetta “frangitura”, ovvero la fase di spremitura delle olive e di frantumazione dei noccioli. In questa fase, che può assumere diverse forme, la tecnica più antica, utilizzata già in età ellenica, prevede l’impiego di grossi dischi di granito fissati a dei supporti rotanti, con un principio che è simile a quello della macinazione del grano.
Segue la “gramolazione” (dal nome della vasca utilizzata: la gramola), essenziale per il risultato finale, in cui la pasta di olive viene riscaldata fino a 25-27 gradi e resa omogena da delle pale rotanti, che sostanzialmente vanno ad amalgamare il composto.
La successiva spremitura a presse, che ad oggi sono quasi tutte in acciaio inossidabile, permette di separare il mosto oleoso, sostanza composta per l’80% d’olio extravergine di oliva e per il 20% d’acqua. La centrifugazione del mosto permette dunque di eliminare la parte acquosa in eccesso. Anche in questo caso, ma è un concetto che si può applicare ad ogni stadio produttivo, le tecniche artigianali riducono di molto la “contaminazione” del prodotto. Vero è che realizzare l’olio manualmente o utilizzando i torchi antichi imporrebbe dei tempi di produzione lunghissimi, non adatti alle dinamiche di mercato odierne.

Curiosità

Vi siete mai interrogati sulla funzione dei tappi “dosatori” delle bottiglie d’olio? La loro funzione non è solo quella di incanalare il flusso d’olio e, appunto, di dosarlo. I tappi di quasi tutte le bottiglie d’olio sono progettati per essere “anti-rabbocco”, ovvero non consentono di mescolare oli diversi nella stessa bottiglia. Lo scopo di questo accorgimento è proteggere il sapore autentico dell’olio, oltre che l’originalità del marchio, scoraggiando la rivendita di prodotti scadenti e mantenendo intatta l’originalità degli aromi classici della miscela.

Oggi non proponiamo una ricetta vera e proprio, ma un metodo di cottura, molto utilizzato nell’alta cucina, ovvero l’olio cottura. Si tratta di un metodo che prevede l’immersione del prodotto da cuocere nell’olio, mantenuto a una temperatura moderata. Per scoprire i segreti di questa tecnica, continuate a leggere!

Negli ultimi anni si sono sviluppati nuovi metodi di cottura, come ad esempio la bassa temperatura, molto utilizzata per mantenere la morbidezza e il gusto della carne o di qualsiasi altro cibo proteico.

Per conservare la morbidezza e il gusto della carne viene utilizzata anche l’olio cottura. Questo metodo prevede l’immersione di un cibo proteico all’interno di una pentola piena di olio, in genere extra vergine di oliva, mantenendo quest’ultimo a una temperatura moderata dai 40 agli 80 gradi.

Ci sono materie prime che si prestano di più per questo tipo di cottura, come ad esempio il baccalà, che assumerà una spiccata morbidezza e un sapore davvero avvolgente. In generale i vantaggi di questo trattamento sono diversi: con questa tecnica, infatti, gli alimenti trattengono tutti i loro aromi naturali in quanto l’olio stesso crea una barriera che evita la fuoriuscita di liquidi e quindi anche la conseguente perdita di peso.

Altro vantaggio che possiamo permetterci con l’utilizzo di questa tecnica è la possibilità di aromatizzare l’olio, in modo tale da donare al prodotto aromi diversi. Di certo non si tratta di una tecnica economica ma vi assicuro, che una volta ogni tanto, lascerà i vostri ospiti davvero senza parole.

Spesso sulle nostre tavole troviamo il classico olio extra vergine di oliva, con il quale cuciniamo e condiamo i nostri piatti; è bene sapere però che non è l’unico tipo di olio d’oliva esistente, ma in base alla lavorazione, possiamo ottenere prodotti differenti. Scopriamo insieme le varie tipologie di olio di oliva.

Per iniziare a parlare delle varie tipologie di olio di oliva, è bene fare una classificazione:

  • Olio di oliva vergine: Olio di oliva extra vergine – Olio di oliva vergine – Olio di oliva lampante
  • Olio di oliva raffinato
  • Olio di oliva composto da oli di oliva vergini
  • Olio di oliva di sansa greggio
  • Olio di oliva di sansa raffinato
  • Olio di sansa di oliva

Sarebbe complicato spiegare tutte le singole differenze di questi oli, per cui cercheremo di comprendere cosa li contraddistingue in parole semplici, partendo da quello più usato a livello domestico, ovvero l’olio d’oliva vergine.                                            L’olio viene detto vergine quando ha subito solo poche lavorazioni, più nello specifico quattro: lavaggio, decantazione, centrifugazione e filtrazione. La seconda classificazione che viene fatta su questo olio dipende dall’acidità libera, un valore che viene espresso dalla percentuale dell’acido oleico, un tipico acido grasso presente negli oli d’oliva: inferiore è l’acidità libera di un olio, maggiore sarà la qualità, per cui l’olio extra vergine di oliva avrà un’acidità libera molto bassa.

Altro tipo di olio è l’olio di oliva raffinato, ricavato da una raffinazione dell’olio di oliva vergine. Dopo la raffinazione si otterrà un prodotto privo di difetti e completamente trasparente; perciò, sarà miscelato con olio vergine o EVO per dare colore e sapore. Si differenzia con l’olio di oliva, il quale è una miscela di un olio di oliva raffinato con un olio vergine o extravergine.

Un’altra tipologia è l’olio di sansa di oliva che si ottiene dai residui solidi della spremitura delle olive, in particolare dalle bucce, dalla polpa e dai noccioli; il contenuto in olio di questa “pasta” è variabile in base al metodo estrattivo impiegato.

Se decidiamo di raffinare quest’olio, otterremo l’olio di sansa raffinato, con un’acidità libera inferiore; mentre se misceliamo olio di sansa raffinato e olio di oliva vergine otteniamo l’olio di sansa di oliva.

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